buono pasto durante maternitàbuono pasto durante maternità

In Italia, la legge prevede che una lavoratrice in maternità debba ricevere tutti i trattamenti economici accessori, come le indennità e i premi di produttività. Questo perché gli istituti di tutela previsti dal D.Lgs. n. 151/2001 (quali l’interdizione anticipata, il congedo di maternità, il congedo parentale e l’allattamento) non devono influire negativamente sulla retribuzione complessiva del lavoratore.

Tuttavia, il buono pasto è un’altra questione. Questo beneficio viene concesso solo se il lavoratore rispetta alcune condizioni: deve osservare l’orario di lavoro minimo previsto dalla contrattazione collettiva, oppure lavorare almeno sei ore al giorno e rispettare l’orario di pausa pranzo. Se il lavoratore fruisce dei permessi giornalieri per allattamento, deve comunque rispettare l’orario di lavoro e la pausa pranzo per avere diritto al buono pasto.

Insomma, la legge è abbastanza chiara su questo punto: una lavoratrice in maternità ha diritto a tutti i suoi benefici economici, ma deve comunque rispettare alcune regole per ricevere il buono pasto. È un piccolo dettaglio, ma importante per garantire che tutti i lavoratori siano trattati in modo equo.

Sono questi, tra gli altri, i principi affermati dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione nell’ordinanza 25 maggio 2022, n. 16929.

Il ricorso in Cassazione veniva presentato da un’agenzia fiscale avverso la decisione della Corte d’appello competente, che aveva riconosciuto il diritto al pagamento dei buoni pasto, dell’indennità di agenzia e di quella di produttività alle lavoratrici assenti per allattamento, congedo di maternità, interdizione anticipata dal lavoro o congedo parentale. Il giudice d’appello aveva motivato la sua decisione sulla base dell’equiparazione dell’interdizione anticipata alla presenza in servizio e sull’applicazione dell’art. 39 del D.Lgs. n. 151/2001, che prevede che i permessi in questione sono da considerarsi ore lavorative agli effetti della retribuzione del lavoro.

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Tuttavia, l’amministrazione datrice di lavoro non ha condiviso tale decisione e ha presentato un ricorso per cassazione, sostenendo che la pronuncia della Corte d’appello era affetta da violazioni di norme legislative e contrattuali.

La Corte di Cassazione accoglie solo in parte le obiezioni dell’agenzia fiscale, decidendo di basare la motivazione della sentenza in esame su una precedente pronuncia della stessa Corte (Cass. civ. 28 novembre 2019, n. 31137).

Infatti, nel dictum richiamato, la Corte Suprema aveva già affermato che “la Corte costituzionale ha più volte stabilito che gli istituti dell’astensione dal lavoro, obbligatoria e facoltativa, quello dei congedi parentali e i riposi giornalieri non hanno più come esclusiva funzione la protezione della salute della donna ed il soddisfacimento delle esigenze puramente fisiologiche del minore, ma sono diretti ad appagare i bisogni affettivi e relazionali del bambino per realizzare il pieno sviluppo della sua personalità, sicché devono essere riconosciuti anche ai genitori adottanti, adottivi e agli affidatari, con modalità adeguate alla peculiarità della loro situazione (Corte Cost. sentenza n. 104/2003 e precedenti ivi richiamati, nonché sentenze n. 105 e n. 158/2018 e nello stesso senso: Cass. civ. 25 febbraio 2010, n. 4623)”, pertanto tali istituti non possono avere effetti negativi sul trattamento retributivo complessivo delle lavoratrici interessate, altrimenti vi sarebbe una tutela solo teorica e non effettiva.

Per quanto riguarda la questione del riconoscimento dei buoni pasto, la Corte di Cassazione, facendo riferimento alla giurisprudenza precedentemente citata, ha sottolineato che “nel pubblico impiego privatizzato, l’attribuzione del buono pasto è condizionata all’effettuazione della pausa pranzo che, a sua volta, presuppone, come regola generale, che il lavoratore osservi un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore (oppure altro orario superiore minimo indicato dalla contrattazione collettiva)”. La Corte ha inoltre evidenziato che i buoni pasto non possono essere concessi ai lavoratori che, beneficiando delle norme di tutela e sostegno della maternità e paternità previste dal D.Lgs. n. 151/2001, lavorino per un orario giornaliero effettivo inferiore alle sei ore previste, poiché l’attribuzione di tale beneficio non riguarda la durata o la retribuzione del lavoro, ma ha lo scopo di compensare l’estensione dell’orario lavorativo disposta dall’amministrazione, fornendo un sostegno assistenziale diretto a consentire il recupero delle energie psico-fisiche degli interessati.

Infatti, come stabilito dalla pronuncia n. 31137/2019, il buono pasto è finalizzato a conciliare le esigenze del servizio con quelle quotidiane del lavoratore, al fine di garantire il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell’attività lavorativa. Tale beneficio è collegato alla promozione dell’organizzazione dell’orario di lavoro, al fine di garantire un più elevato livello di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, come previsto dalla normativa UE e dai Trattati.

Di conseguenza, il buono pasto non può essere considerato un corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa, poiché la sua concessione dipende dalla sussistenza di un nesso meramente occasionale con il rapporto di lavoro e dalle modalità concrete del suo svolgimento orario, come stabilito dalla contrattazione collettiva e dall’art. 8 del D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66. L’attribuzione dei buoni pasto è finalizzata a consentire il recupero delle energie psico-fisiche dei lavoratori che si trovino in una situazione di estensione dell’orario di lavoro, non essendo correlata alla prestazione lavorativa in sé, ma alle modalità di organizzazione dell’orario di lavoro. Pertanto, l’equiparazione dei periodi di riposo del D.Lgs. n. 151/2001 alle ore lavorative non può essere applicata per l’attribuzione dei buoni pasto, poiché ciò non è finalizzato a favorire la conciliazione tra la vita professionale e quella familiare dei dipendenti.

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha raggiunto lo stesso approdo argomentativo con l’interpello n. 2/2019 del 16 aprile 2019, sottolineando che il dettato normativo e la ratio dell’art. 8 del D.Lgs. n. 66/2003 non sembrano lasciare dubbi sulla necessità di un’effettiva attività lavorativa, diversa dalla fattispecie di cui all’art. 39 del D.Lgs. n. 151/2001, in cui il legislatore ha voluto riconoscere le ore di permesso per favorire la lavoratrice madre. Pertanto, il Ministero evidenzia che “un’analisi coordinata delle due disposizioni richiamate, considerata la specifica funzione della pausa pranzo, che la legge definisce come ‘intervallo’, porta ad escludere che una presenza effettiva della lavoratrice nella sede di lavoro pari a 5 ore e 12 minuti (corrispondente all’orario di lavoro delle lavoratrici nella fattispecie portata all’attenzione dei giudici di Piazza Cavour) dia diritto alla pausa ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs. n. 66/2003”, con l’effetto che “non si dovrà procedere alla decurtazione dei 30 minuti della pausa pranzo dal totale delle ore effettivamente lavorate dalla lavoratrice”. Questi risultati recepiscono le indicazioni del Dipartimento della Funzione Pubblica, che ha già fornito una risposta all’ISTAT e all’ARAN con una nota del 10 ottobre 2012 (n. 40527), evidenziando che “il diritto al buono pasto sorge per il dipendente solo nell’ipotesi di attività lavorativa effettiva dopo la pausa stessa”.

Alla luce di queste considerazioni, i giudici di legittimità ritengono che non sia pertinente il riferimento del giudice del gravame al D.P.C.M. 18 novembre 2005, in quanto tale decreto “ha la funzione di individuare in che cosa consistano i buoni pasto in relazione all’affidamento pubblico della loro gestione ad appaltatori esterni, disponendo l’irrilevanza, a tali fini, della corrispondenza con pause pranzo, ma certamente non interferisce con i requisiti che la contrattazione collettiva di comparto o decentrato, nell’ambito del rapporto di lavoro, richieda per la loro attribuzione”.

Pertanto, per quanto riguarda la spettanza del buono pasto alle lavoratrici che beneficiano dei riposi ex art. 39 del D.Lgs. n. 151/2001 senza svolgere attività lavorativa per il tempo minimo necessario per usufruirne, l’ordinanza in questione accoglie il ricorso per cassazione presentato dall’amministrazione datrice di lavoro, negando in tali casi il riconoscimento del buono pasto.

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