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Come noto, sulla natura giuridica dell’azione di risarcimento danni per responsabilità della Pubblica Amministrazione da illegittimo provvedimento diverse sono state le tesi seguite dalla giurisprudenza.

  1. Secondo il tradizionale orientamento, rientrerebbe nell’ambito di operatività della responsabilità extracontrattuale di cui all’art.2043 c.c. (Cons. Stato, Sez. V, 31 luglio 2012, n. 4337; T.A.R. Lazio – Roma, Sez. III^, sentenza n. 11808/2014; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 02/03/2018, n. 1350; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I 25 settembre 2017 n. 4483);
  2. Secondo un indirizzo minoritario, dovrebbe, invece, essere concepita quale responsabilità da inadempimento da contatto sociale qualificato (Cons. Stato, VI, 4 luglio 2012, n. 3897; Consiglio di Stato, sez. VI, 30/12/2014, n. 6421);
  3. Secondo, infine, altre pronunce, costituirebbe una responsabilità sui generis, e, pertanto, non interamente riconducibile al paradigma della responsabilità né extracontrattuale, né contrattuale (Consiglio di Stato, sez. VI, 14/03/2005, n. 1047; Consiglio di Stato, sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5611; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 05/03/2018, n. 617; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III 06 aprile 2016 n. 650).

Sulla questione della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione da illegittimo esercizio delle funzioni pubblicistiche si è recentemente pronunciata l’Ad. Plen. n. 7/2021.

Sebbene, infatti, la tesi tradizionale, ancora prevalente, ritenga riconducibile siffatta responsabilità nell’ambito di quella aquiliana ai sensi dell’art.2043 c.c., da alcuni decenni è stata sostenuta in giurisprudenza anche la diversa tesi secondo cui quella dell’Amministrazione in questi casi sarebbe una responsabilità da inadempimento di obblighi scaturenti dal contatto sociale che si sarebbe instaurato tra la Pubblica Autorità e l’interessato nell’ambito del procedimento amministrativo, con conseguente applicazione della disciplina di cui all’art.1218 c.c.

L’Ad. Plen. 7/2021 ha chiarito che la responsabilità della Pubblica Amministrazione da illegittimo esercizio della funzione pubblicistica è di natura extracontrattuale, non potendo, infatti, configurarsi un rapporto obbligatorio nell’ambito di un procedimento amministrativo in quanto:

  1. nel procedimento amministrativo, a differenza del rapporto obbligatorio, sussistono due situazioni attive, cioè il potere della P.A. e l’interesse legittimo del privato;
  2. il rapporto tra le parti non è paritario, ma di supremazia della P.A.

Centrale è quindi l’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio, diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui la valutazione sull’ingiustizia del danno è assorbita dalla violazione della regola contrattuale.

Declinata nel settore relativo al “risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi”, di cui all’art. 7, comma 4, cod. proc. amm., il requisito dell’ingiustizia del danno implica che il risarcimento può essere riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi.

Infatti, diversamente da quanto avviene nel settore della responsabilità contrattuale, il cui aspetto programmatico è costituito dal rapporto giuridico regolato dalle parti contraenti mediante l’incontro delle loro volontà concretizzato con la stipula del contratto-fatto storico, il rapporto amministrativo si caratterizza per l’esercizio unilaterale del potere nell’interesse pubblico, idoneo, se difforme dal paradigma legale ed in presenza degli altri elementi costitutivi dell’illecito, ad ingenerare la responsabilità aquiliana dell’amministrazione.

L’ingiustizia del danno che fonda la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi si correla alla sopra menzionata dimensione sostanzialistica di questi ultimi, per cui solo se dall’illegittimo esercizio della funzione pubblica sia derivata per il privato una lesione della sua sfera giuridica quest’ultimo può fondatamente domandare il risarcimento per equivalente monetario. Secondo un orientamento risalente dell’Adunanza plenaria, mai posto in discussione, il risarcimento è quindi escluso quando l’interesse legittimo riceva tutela idonea con l’accoglimento dell’azione di annullamento, ma quest’ultimo sia determinato da una illegittimità, solitamente di carattere formale, da cui non derivi un accertamento di fondatezza della pretesa del privato ma un vincolo per l’amministrazione a rideterminarsi, senza esaurimento della discrezionalità ad essa spettante (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 3 dicembre 2008, n. 13; §§ 3.3 – 3.5).

Gli elementi costitutivi della responsabilità civile della pubblica amministrazione, pertanto, sono quelli di cui all’art. 2043 c.c., ossia

  1. sotto il profilo oggettivo, il nesso di causalità materiale e il danno ingiusto, inteso come lesione alla posizione di interesse legittimo
  2. sotto il profilo soggettivo, il dolo o la colpa.

Sul piano delle conseguenze, il fatto lesivo deve essere collegato, con un nesso di causalità giuridica o funzionale, con i pregiudizi patrimoniali o non patrimoniali lamentati.

Occorre allora verificare la sussistenza dei presupposti di carattere oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio subito), e successivamente quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa della p.a.).

Con riferimento alla ingiustizia del danno, deve rilevarsi, altresì, che presupposto essenziale della responsabilità è l’evento dannoso che ingiustamente lede una situazione soggettiva protetta dall’ordinamento e, affinché la lesione possa considerarsi ingiusta, la lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria – anche se non sufficiente – per accedere alla tutela risarcitoria ( Cons. Stato, sez. II, 20 maggio 2019, n. 3217); occorre quindi anche verificare che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima (e colpevole dell’amministrazione pubblica), il bene della vita al quale il soggetto aspira; ovvero il risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa non può prescindere dalla spettanza di un bene della vita, atteso che è soltanto la lesione di quest’ultimo che qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante dal provvedimento illegittimo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 27 aprile 2021, n. 3398; id. Sez. IV, 2 marzo 2020, n. 1496; Sez. IV, 6 luglio 2020, n. 4338; Sez. IV, 27 febbraio 2020, n. 1437).

Peraltro, il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda e, in particolare, sia i presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale) sia quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante) (Cons. Stato, Sez. II, 28 aprile 2021 n. 3414; 24 luglio 2019, n. 5219; sez. VI, 5 maggio 2016 n. 1768, Sez. V, 9 marzo 2015 n. 1182 e Sez. IV, 22 maggio 2014 n. 2638).

Invero, anche l’esistenza del danno ingiusto, lamentato in giudizio, deve formare oggetto di un puntuale onere probatorio in capo al soggetto che ne chieda il risarcimento, non costituendo quest’ultimo una conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale o dell’accertamento dell’illegittimità dell’atto amministrativo. In proposito non soccorre, infatti, il metodo acquisitivo; né l’esistenza del danno stesso può essere presunta quale conseguenza dell’illegittimità provvedimentale in cui l’Amministrazione sia incorsa.

Secondo il consolidato insegnamento giurisprudenziale il principio generale dell’onere della prova previsto dall’art. 2697 c.c. si applica anche all’azione di risarcimento per danni proposta dinanzi al giudice amministrativo. Spetta dunque al danneggiato fornire in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria e, quindi, in particolare, la presenza di un nesso causale che colleghi la condotta commissiva o omissiva della Pubblica Amministrazione all’evento dannoso, e l’effettività del danno di cui si invoca il ristoro, con la conseguenza che, ove manchi tale prova, la domanda di risarcimento non può che essere respinta (Cons. Stato Sez. II, 1settembre 2021, n. 6169).

Il danneggiato, pertanto, dovrà provare:

  • sul piano oggettivo, la presenza di un provvedimento illegittimo causa di un danno ingiusto, con la necessità, a tale ultimo riguardo, di distinguere l’evento dannoso (o c.d. “danno-evento“) derivante dalla condotta, che coincide con la lesione o compromissione di un interesse qualificato e differenziato, meritevole di tutela nella vita di relazione, e il conseguente pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale scaturitone (c.d. “danno-conseguenza“), suscettibile di riparazione in via risarcitoria (cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen., 23 marzo 2011, n. 3);
  • sul piano soggettivo l’integrazione del coefficiente di colpevolezza, con la precisazione che la sola riscontrata ingiustificata o illegittima inerzia dell’amministrazione o il ritardato esercizio della funzione amministrativa non integra la colpa dell’Amministrazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 15 gennaio 2019, n. 358).

Con riguardo al primo, sul piano probatorio, l’accertamento del nesso di causalità tra la condotta e l’evento lesivo – c.d. “causalità materiale” – impone di verificare «se l’attività illegittima dell’Amministrazione abbia determinato la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell’ordinamento» (Consiglio di Stato, sez. II, 25 maggio 2020, n. 3318).

Trattasi di un giudizio da svolgere in applicazione della teoria condizionalistica, governata dalla regola probatoria del “più probabile che non” e temperata in applicazione dei principi della causalità adeguata.

In particolare, occorre procedere ad un giudizio controfattuale, volto a stabilire se, eliminando nell’illecito commissivo, o aggiungendo nell’illecito omissivo, quella determinata condotta, l’evento si sarebbe ugualmente verificato, occorrendo, una volta risolto positivamente siffatto scrutinio, un secondo accertamento preordinato a verificare, con un giudizio di prognosi ex ante, l’esistenza di condotte idonee – secondo il criterio del “più probabile che non” – a cagionare o evitare quel determinato evento.

Sicché l’esito positivo del predetto giudizio – riconducibile alla teoria della causalità adeguata – accerta definitivamente l’efficienza causale dell’atto illegittimo rispetto all’evento di danno, che va esclusa qualora emergano fatti o circostanze che abbiano reso da sole impossibili il perseguimento del bene della vita determinando autonomamente l’effetto lesivo (Cons. Stato, VI, 29 maggio 2014, n. 2792) (Consiglio di Stato, Sez. V, 9 luglio 2019, n. 4790).

Positivamente definito lo scrutinio in ordine alla causalità materiale, a fronte d’un evento dannoso causalmente riconducibile alla condotta illecita, occorre verificare la sussistenza di conseguenze dannose, da accertare secondo un (distinto) regime di causalità giuridica che ne prefigura la risarcibilità soltanto in quanto si atteggino, secondo un canone di normalità e adeguatezza causale, ad esito immediato e diretto della lesione del bene della vita ai sensi degli artt. 1223 e 2056 Cod. civ. (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 4 agosto 2015, n. 3854).

Peraltro, ove non sia possibile accertare con certezza la spettanza in capo al ricorrente del bene della vita ambito, il danno patrimoniale potrebbe, comunque, liquidarsi ricorrendo alla tecnica risarcitoria della chance, previo accertamento di una “probabilità seria e concreta” o anche “elevata probabilità” di conseguire il bene della vita sperato, atteso che un livello inferiore, coincidente con “mera possibilità“, configura soltanto un ipotetico danno non meritevole di reintegrazione poiché in pratica nemmeno distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto (Consiglio di Stato Sez. V, 15 novembre 2019, n. 7845).

Con riguardo, poi, al profilo soggettivo, l’elemento della colpa va individuato nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ossia in negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell’interesse protetto di colui che ha un contatto qualificato con la P.A. stessa (Cons. Stato Sez. VI, 7 settembre 2020, n. 5389; Sez. III, 15 maggio 2018, n. 2882; id, III, 30 luglio 2013, n. 4020).

Pertanto, la responsabilità deve essere negata quando l’indagine conduce al riconoscimento dell’errore scusabile per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (Cons. Stato, VI, 3 marzo 2020, n. 1549; Sez. IV, 7 gennaio 2013, n. 23; id., V, 31 luglio 2012, n. 4337).

Per la configurabilità della colpa dell’Amministrazione, occorre infatti, la dimostrazione che la Pubblica Amministrazione abbia tenuto un comportamento negligente in palese contrasto con i canoni di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, di cui all’art. 97 Cost. (Cons. Stato, IV, 4 settembre 2013, n. 4452; Sez. V, 18 giugno 2018, n. 3730).

In altri termini, occorre avere riguardo al carattere della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell’elemento nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa contestata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all’Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità. E, infatti, a fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità della Amministrazione potrà essere affermata nei soli casi in cui l’azione amministrativa ha disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell’imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell’errore scusabile (cfr. Cons. Stato Sez. III, 24 maggio 2018, n. 3131; id. 16 maggio 2018, n. 2921).

Infine, può assumere rilievo in ordine alla riduzione o all’esclusione del danno risarcibile il concorso di colpa del danneggiato che abbia omesso di attivare i previsti rimedi processuali di tutela specifica, come precisato nella nota pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 3 del 2011, secondo cui “Operando una ricognizione dei principi civilistici in tema di causalità giuridica e di principio di auto-responsabilità, il codice del processo amministrativo sancisce la regola secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità relativa (secondo il criterio del “più probabilmente che non”: Cass., sezioni unite,11 gennaio 1008, n. 577; sez. III, 12 marzo 2010, n. 6045), recide, in tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze dannose risarcibili. Di qui la rilevanza sostanziale, sul versante prettamente causale, dell’omessa o tardiva impugnazione come fatto che preclude la risarcibilità di danni che sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di rituale utilizzazione dello strumento di tutela specifica predisposto dall’ordinamento a protezione delle posizioni di interesse legittimo onde evitare la consolidazione di effetti dannosi”.

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